Il legame debole dell’amore

Il legame dell'amore com'è? Forte come quello di Marsilio Ficino, o debole raccontato da Ludovico Ariosto?

Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio


Il legame debole dell’amore


Se prendiamo la formulazione di Marsilio Ficino (1433 – 1499), il legame dell’amore non appare tale:
“Certamente mentre che io amo te amante me, io in te cogitante di me ritruovo me, e me da me medesimo sprezzato in te conservante racquisto; quel medesimo in me tu fai. Questo ancora mi pare maraviglioso: imperò che io, da poi che me medesimo perdetti, se per te mi racquisto, per te ho me.” (“El libro dell’amore”, 1491)

Egli concepisce l’amore come un perdersi per ritrovarsi nell’altro: è un’abiura al dominio di sé, all’ironia dell’autosufficienza, a vantaggio di un’identità puramente relazionale: non è se non un riconoscersi nel termine della relazione, se non un vivere nell’altro:

“Muore amando qualunque ama, perché el suo pensiero, dimenticando sé, nella persona amata si rivolge. Se egli non pensa di sé, certamente non pensa in sé, e però tale animo non adopera in sé medesimo, con ciò sia che la principale operatione dell’animo sia el pensare.” (“El libro dell’amore”)
Il pensare dell’amante è assolutamente decentrato, perché è totalmente pensiero dell’amato: egli desidera “transferirsi nella persona amata, e meritatamente, perché in questo acto egli appetisce e sforzasi di huomo farsi iddio.” (El libro dell’amore”)

Ora, è proprio questa concezione sublime dell’amore indiante l’obiettivo polemico di Ariosto, che nel suo poema “L’Orlando furioso” si mostra estraneo al neoplatonismo che aveva in Marsilio Ficino il suo maestro e caposcuola.

Lo abbiamo già visto a proposito di Orlando che perde il senno; lo confermano le vicissitudini amorose di un altro “eroe” del poema, “Ruggero”, in cui il legame dell’amore con Bradamante si dimostra appunto debole, come rimarca con ironia Ariosto, nell’ottava 18 del canto VII:

“La bella donna che cotanto amava, / novellamente gli è dal cor partita; / che per incanto Alcina gli lo lava / d’ogni antica amorosa sua ferita; / e di sé sola e del suo amor lo grava, / e in quello essa riman sola sculpita: / sì che scusar il buon Ruggier si deve, / se si mostrò quivi inconstante e lieve.”

“Novellamente”: non era perciò la prima volta! Eppure, non molto tempo prima, si era ricongiunto a Bradamente, quando costei lo aveva liberato dal castello fatato di Atlante (dove, tra l’altro, era vissuto in dorata prigionia, allietata da fanciulle e da “quanto averne da tutte le bande / si può del mondo, […] tutto in quella ròcca: / suoni, canti, vestir, giuochi, vivande, / quanto può cor pensar, può chieder bocca”):

“Al fin trovò la bella Bradamante / quivi il desiderato suo Ruggiero, / che, poi che n’ebbe certa conoscenza, / le fe’ buona e gratissima accoglienza; / come a colei che più che gli occhi sui, / più che ‘l suo cor, più che la propria vita / Ruggiero amò dal dì ch’essa per lui / si trasse l’elmo, onde ne fu ferita. […] Or che quivi la vede, e sa ben ch’ella / è stata sola la sua redentrice, / di tanto gaudio ha pieno il cor, che appella / sé fortunato et unico felice.” (Canto IV, ott. 40 – 42)

E anche in seguito, dopo che la stessa Bradamante era stata artefice della sua fuga dall’isola di Alcina, non sa resistere al fascino sensuale di un’altra donna, Angelica, che egli aveva appena salvato dall’Orca, sull’isola di Ebuda:

“Qual ragion fia che ‘l buon Ruggier raffrene, / sì che non voglia ora pigliar diletto / d’Angelica gentil che nuda tiene / nel solitario e commodo boschetto? / Di Bradamante più non gli soviene, / che tanto aver solea fissa nel petto: / e se gli ne sovien pur come prima, / pazzo è se questa ancor non prezza e stima”. (Canto XI, ott. 2)

E’ raro, afferma ancora Ariosto, che “di ragione il morso / libidinosa furia a dietro volga, / quando il piacere ha in pronto.” (Canto XI, ott. 1)
Dunque, il legame amoroso di Ruggero con Bradamante è debole, se l’incanto sensuale di Alcida è in grado di lavargli il cuore, cioè di cancellare o comunque appannare e ricoprire di polvere obliosa l’immagine di Bradamante, il cui “angelico aspetto” lo aveva “vinto e sbigottito” facendogli tremare “il core in petto”, “parendo a lui di foco essere ferito”

Ariosto evidenzia l’effetto ipnotico della seduzione sensuale, in grado di operare un lavaggio del cervello: se non cancella, di sicuro essa sospende la memoria, la trama del racconto vissuto in cui l’uomo ha la sua identità. In questo caso, la storia è quella di Ruggero che “ama” Bradamante: è con lei che ha una storia, è lei che alla fine sposerà, eppure la maga Alcina “per incanto” “gli lava” “il core” – in senso quasi letterale –, così da insediarsi trionfante in esso, al posto di Bradamante, quale nuova immagine “sculpita”.

Ariosto quasi si compiace – dal distacco della sua saggezza – di mettere in scena questa “labilità della passione”, che lo fa pure essere indulgente e comprensivo verso Ruggero: “scusar il buon Ruggier si deve, / se si mostrò quivi inconstante e lieve.”

Una labilità confermata dall’irresistibilità della pulsione sensuale, alla quale è raro resistere, perché il morso della ragione nulla potrebbe contro la “furia libidinosa”, come dimostra il comportamento prepotente di Ruggero alla presenza di Angelica nuda, e altri esempi di altri cavalieri nel poema, nonché l’esperienza stessa della vita!

Opera anche qui “un black – out” della coscienza, un oscuramento improvviso, un dimenticarsi di sé e della propria identità narrativa, a favore di un’incursione effimera nel regno dell’istante del piacere – con andata e ritorno -, che può assumere la forma del “furto d’amore”, dell’estorsione, che Angelica riesce ad evitare in virtù di un anello magico con cui si rende invisibile, e fugge via.

La differenza sostanziale tra l’amore forte di cui parla Ficino, e quello debole raccontato da Ariosto, è nel grado di compenetrazione tra i due amanti: intimo e profondo il primo, in grado di svolgersi nel tempo e sfumare nell’eternità; istantaneo e superficiale il secondo, realizzandosi in un “mordi e fuggi” che non coinvolge se non nell’istante del godimento, dopo il quale l’amante ritorna in sé, nel suo io autosufficiente, dopo la crisi dell’amplesso.

Certo, anche l’amante del quale parla Marsilio Ficino – l’amante platonico, innamorato, che ama filosoficamente – non sfugge alla tentazione della fuga effimera nell’istante, anche lui è soggetto al “lavaggio” dell’incantamento improvviso della seduzione, ma egli conosce, per scelta e vocazione, un trascendimento radicale del suo io, che lo porta a trasferirsi nell’altro, dimentico di sé, in un’unificazione indiante che passa attraverso la bellezza del corpo, ma non si ferma nel corpo.

La buffa facilità con la quale i cavalieri ariosteschi cedono all’urgenza del desiderio sensuale, un’urgenza che talvolta precipita nel sopruso e nella sopraffazione, o comunque nella slealtà del tradimento, è il segno di un mancato approfondimento della passione amorosa, che quando avviene realizza il “transferirsi nella persona amata, […], perché in questo acto egli appetisce e sforzasi di huomo farsi iddio.” (El libro dell’amore”)

Ma dipende molto dalle epoche storiche, dalle mode culturali, dalle tendenze se nell’immaginario collettivo prevale la rappresentazione “debole” o “forte” dell’amore. Oggi è il tempo dell’amore debole, dell’Alcina ipnotica, che ammicca dappertutto, non appena volgi lo sguardo, o accendi la televisione, o navighi nei social e simili.


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Carletto Romeo