La vicenda di Saman Abbas

Il trauma culturale di una famiglia tradizionale e patriarcale trapiantata altrove. Un acclimatamento non riuscito.

La vicenda di Saman Abbas

Il trauma culturale di una famiglia tradizionale e patriarcale trapiantata altrove. Un acclimatamento non riuscito.


E’ mancata la vera pietà nei commenti che finora hanno accompagnato i resoconti giornalistici sullo sviluppo della vicenda, il cui esito tragico è dato come certo dagli inquirenti: qualche parente stretto avrebbe ucciso la ragazza, per avere disobbedito alla famiglia e alle sue regole ferree, e poi sepolta in un luogo sconosciuto, che si sta cercando di individuare.

Sulla pietà è prevalsa la strumentalizzazione, la rivendicazione orgogliosa della nostra superiorità, di noi civili su di loro, ancora barbari nei costumi, e quindi la richiesta gridata di rivedere la politica dell’immigrazione e dell’accoglienza, finora troppo indulgente per colpa di una certa sinistra che ora vilmente tace, affinché non si transiga sul rispetto delle nostre leggi e del nostro comune senso di umanità da parte degli immigrati che chiedono di vivere e lavorare nel nostro paese.

Sulla durezza appena velata dei giudizi pesa ovviamente quel poco che si sa (o si crede di sapere) del Pakistan: che è un paese islamico nel quale la sharia è applicata con rigore e intransigenza fanatica, dove si può essere condannati a morte per blasfemia – come stava per capitare ad Asia Bibi, una donna pakistana appartenente alla minoranza cristiana malamente tollerata dalla maggioranza musulmana – o per adulterio o omosessualità, e altro ancora.

Ma in questo caso mi pare che la religione c’entri poco – anche se in tanti gongolano di tirarla in ballo -, e invece assai la struttura rigidamente patriarcale della famiglia pakistana, soprattutto delle zone rurali ancora prevalenti, nella quale il margine di libertà soprattutto per le figlie è minimo, dato che è al padre che compete la scelta del futuro marito, secondo una logica di alleanze famigliari e di consolidamento di rapporti parentali già esistenti.

E’ una questione di sintassi dei rapporti umani in ambito famigliare, le cui regole non si cambiano da un giorno all’altro: catapultare una famiglia patriarcale tradizionale pakistana dal suo retroterra rurale tradizionale in un’Italia già “postmoderna” non fa cambiare le regole secondo cui quel tipo di famiglia funziona. Il salto di mentalità tra genitori e figli può poi essere enorme, e porre le premesse per simili tragedie.

La transizione dalla tradizione alla modernità è tanto più traumatica e violenta quanto più è accelerata, così da non potere venire metabolizzata dall’organismo sociale, e dagli individui che ne sono coinvolti. E’ uno degli effetti collaterali della globalizzazione a marce forzate, e del melting plot globale.

Eppure, non è trascorso molto tempo da quando Gavino Ledda ha pubblicato il romanzo autobiografico “Padre padrone” (1975), che descrive un’Italia con sacche significative di patriarcalità autoritaria e violenta, non ancora pronta a riconoscere i legittimi spazi di libertà e autodeterminazione ai figli.

Non è trascorso molto tempo, ma ormai siamo incapaci di dialogare con il nostro recente passato, come se non ci appartenesse e non facesse parte delle nostre radici. Siamo solo capaci di sdegno saccente e calcolato.

In termini più generali, si è riproposta nel dibattito la questione dello scontro di civiltà: in che misura civiltà diverse possono dialogare, o essere valutate secondo un parametro oggettivo, universalmente valido?

Da una parte, noi, che abbiamo scritto la “Dichiarazione universale dei diritti umani”; dall’altra loro, che recalcitrano, e farebbero solo finta di accettarla, che con le loro intrusioni e le loro enclave etniche nel cuore dell’Europa metterebbero a repentaglio il sistema della nostra società, che si pretende “universale”, come recita il Documento ONU del 1948.

In realtà, la questione si è subito posta all’inizio della modernità, quando noi europei abbiamo cominciato a esplorare e colonizzare il resto del mondo. Facciamo solo qualche esempio di questo incontro – scontro traumatico.

Agli inizi del Cinquecento, in America, tra gli Incas e gli Aztechi si praticavano i sacrifici umani, sui quali abbiamo testimonianze oculari di spagnoli dell’epoca dei “Conquistadores”, e l’antropofagia era diffusa.

In India, vigeva la pratica del “sati”, l’autoimmolazione della vedova sulla pira funebre dove bruciava il marito morto. Sia l’uno che l’altro rito vennero vietati, il primo dagli spagnoli nel Cinquecento, il secondo dagli inglesi nell’Ottocento.

Un oscuro turbamento prende gli europei, nella misura in cui si rendono conto del proteiforme dinamismo della natura e dell’uomo. La nostra civiltà non era l’unica civiltà sulla Terra, esistevano società diverse edificate su fondamenta diverse, se non opposte.

Si diffonde un certo scetticismo relativistico, di cui uno dei primi interpreti è Michel de Montaigne (1533 – 1592), che nel cap. XXXI dei suoi “Saggi” afferma, a proposito dei cannibali del Brasile:

“Ora io credo, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito: se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.”

Ma se sul piano della riflessione scientifico – filosofica il relativismo resta dominante, anche nei secoli successivi, di fatto il primato mondiale dell’Europa, nei secoli del colonialismo e dell’imperialismo, non è solo politico – militare, basato sullo sfruttamento economico, ma è anche culturale.

Il che avvia un processo di contaminazione, in parte reciproco, anche se risulta preponderante l’influenza occidentale sulle società asiatiche ed africane.

In particolare, sono le idee e le istituzioni che avevano reso l’Occidente economicamente e militarmente superiore, a venire adottate e assimilate nel corso di un processo di modernizzazione occidentalizzante contraddittorio e traumatico, lacunoso e difficile, che è tuttora in corso: mi riferisco alla scienza e alla tecnica, all’organizzazione economica capitalistica (sistema di mercato), all’apparato statale e amministrativo, alle idee di libertà individuale e sovranità popolare.

Di fatto, la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) è il risultato massimo della civiltà europea, il coronamento di un processo secolare, che ha sancito il suo trionfo sul resto del mondo.

Le élite africane e asiatiche al potere, che avevano assimilato la cultura occidentale, hanno condiviso questo risultato, ma la loro egemonia era precaria, contestata, a fronte di masse popolari ancora immerse nella tradizione.

Le reazioni non sono infatti mancate, sotto forma di rigetto dell’influenza occidentale e di rivitalizzazione della tradizione. Il caso più clamoroso è la rivoluzione islamica in Iran negli anni 1978 -79, che ha portato al potere l’ayatollah Khomeyni con l’istituzione di una repubblica islamica sciita basata rigorosamente sulla sharia.

Molto significativo, seppure poco noto, è pure il fatto che nel 1981, presso l’Unesco a Parigi, viene proclamata la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, che usa come fonte normativa il Corano e le tradizioni islamiche.

Nel 1990, al Cairo, ne viene approvata una nuova versione, la Dichiarazione del Cairo dei Diritti Umani dell’Islam. Esiste pure una Carta araba dei diritti dell’uomo, del 2004.

La situazione è dunque ancora fluida, e genera il massimo attrito, potenzialmente drammatico, soprattutto in quei luoghi dove il contatto tra mentalità diverse avviene senza mediazioni, scavalcando artificialmente le barriere di spazio e tempo che in altre circostanze le avrebbero tenute separate e distanti.

Di fronte a questa drammatica complessità, invece di dare la parola a filosofi, antropologi, e rappresentanti autorevoli delle più diverse culture, i nostri mezzi di informazione mettono in scena la cialtroneria dei nostri politicanti nostrani, intrisi di ignoranza e saccenteria, che hanno pensato di fare un po’ di propaganda elettorale.

Questa volta ha avuto fortuna Salvini, qualche altra volta Letta o Di Maio!
A quanto abbiamo detto, occorre aggiungere le difficoltà insite sul piano teorico nella concezione laica dei diritti umani, oltreché sul piano pratico della loro attuazione.

Manca infatti un fondamento razionale evidente al quale possiamo appellarci per dare validità ai diritti umani, mentre la carta islamica si fa forte del fondamento teologico coranico, analogamente a quanto avveniva nell’Europa cristiana premoderna. (Ricordo a questo proposito che i leader che hanno guidato il processo di costruzione dell’Europa hanno rifiutato di inserire nella sua costituzione un riferimento alle radici cristiane.)

Manca perché, come afferma Norberto Bobbio, “che esista una crisi dei fondamenti è innegabile. Bisogna prenderne atto, ma non tentare di superarla cercando altro fondamento assoluto da sostituire a quello perduto.”

Come si dice in altri termini, al pensiero forte della modernità è subentrato un pensiero debole postmoderno, incapace di indicare fondamenta razionali ultimi, con inevitabili esiti relativistici e nichilistici, che si respirano nell’aria.

D’altra parte, questo relativismo è esasperato dallo strapotere della tecnica, che se da una parte ci è utile, dall’altra rende tutto possibile, anche stravolgere la natura umana: non vi sono vincoli che la tecnica non possa sciogliere, mentre scarseggiano le direttive etiche, capaci di guidarla.

Si addensano dunque nubi minacciose su diritti fondamentali quali la libertà, e la dignità della persona umana, che rischiano di perdere significato.
Un’altra minaccia è la deriva individualistica delle società occidentali, che porta a un proliferare di diritti particolari sganciati da una visione di insieme sul senso di marcia complessivo che dovrebbe comunque guidare una società.

Tornando in chiusura alla vicenda drammatica di Saman Abbas, potremmo dire che noi in quanto occidentali ci troviamo agli antipodi: da una parte, una sottomissione schiacciante dell’individuo alla logica della comunità famigliare (è il caso di Saman); dall’altra (è il nostro caso), uno sganciamento dell’individuo dalle logiche famigliari e comunitarie portato fino alla loro dissoluzione.


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2 commenti

  1. Una lettura molto interessante.

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Carletto Romeo