Reale e immaginario: Machiavelli, Ariosto, John Donne

Per mezzo dell’ironia, Ariosto (1474 – 1533) sgualcisce e scuce i paludamenti indossati dagli eroi e dalle eroine del suo poema, “L’Orlando furioso”. Lacera il velo dell’immaginazione facendo intravedere la realtà.

Lo stile scanzonato è un riflesso del calo della tensione morale dell’epoca, ma anche del disincanto scaturito da uno sguardo più scaltro e razionale sulle cose, che è alla base della nuova mentalità scientifica che si va affermando proprio nel periodo rinascimentale.

Anche Machiavelli (1469 – 1527), contemporaneo di Ariosto, forte dell’esperienza maturata in anni di attività politica nel governo della repubblica di Firenze, fa valere, e in modo spregiudicato, il nuovo atteggiamento realistico, e non esita a prendere di mira e scuotere quel che di immaginario vi era nelle teorie politiche del suo tempo.

Occupandosi infatti dell’arte di governo – nel cap. 15 del trattato “Il Principe” (1532) -, e delle abilità che il principe deve dispiegare in questo esercizio, Machiavelli si discosta parecchio dai suoi predecessori, che erano soliti farne un ritratto ideale, e dunque immaginario.

Infatti afferma:
“Ma, sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa.”

Egli vuole scrivere un libro utile, e quindi non può prendere la realtà politica e fargli il make – up, vale a dire truccarla per farla apparire più bella e più buona: deve invece rappresentarla in tutta la sua crudezza e spigolosità, in quanto solo da una rappresentazione quanto più veritiera possibile l’arte politica può trarre criteri di azione efficaci. Dunque, Machiavelli va “drieto alla verità effettuale della cosa”, prosaica e vile rispetto all’”immaginazione di essa”, però vera.

Non è una decisione di poco conto, in sintonia con tutti i cambiamenti epocali che stavano avendo luogo tra il Quattrocento e il Cinquecento.
Per fare qualche esempio, la nuova geografia che accompagna e segue le esplorazioni geografiche e la nuova cosmologia copernicana non sono altro che un trionfo della realtà sull’immaginazione, come vedremo. Idem, la nuova scienza fisica e medica.

Andare “drieto alla immaginazione”, oggi lo chiameremmo un atteggiamento idealizzante, che porta per forza di cosa a urtare contro la realtà.

Machiavelli mette in guardia contro questi idealisti:

“E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni.”

Molti, anche tra gli intellettuali – afferma Machiavelli – si sono immaginati repubbliche e reami che non esistono, se non nelle fiabe – diremmo noi. Costoro truccano la realtà politica per renderla conforme all’ideale morale e religioso, ma in questo modo confondono l’essere con il dover essere, l’auspicio del desiderio con il vincolo della necessità, la realtà con l’immaginazione. Ritraggono un “principe buono”, “teologicamente corretto”, che però non esiste, in quanto un principe “che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni.”

Gli uomini non si comportano come dovrebbero, secondo la morale cristiana, con la conseguenza che il principe che agisse come dovrebbe agire, cioè secondo precetti etico- religiosi, e non come le circostanze richiedono, andrebbe incontro alla rovina: “impara più tosto la ruina che la perservazione sua”.

Stiamo arrivando al nucleo incandescente del Machiavellismo: essendo la società e gli uomini ben diversi dall’immagine edificante che ce ne possiamo fare, “è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità.”

Quanto Machiavelli prescrive, è in realtà sempre stata prassi del potere: lui svela gli “arcana imperii”, con un effetto di shock:

“Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà et il bene essere suo.”

Ormai “il re è nudo”, anche se poi, se è abile, sarà sempre in grado di coprire la sua nudità sotto i paludamenti della retorica e della menzogna, per darsi un’immagine rispettabile agli occhi dell’opinione pubblica. Ma la statura ideale e immaginaria è perduta, come accade ai paladini di Ariosto. Lo specchio ideale della regalità è infranto.

Il rapporto tra immaginazione e realtà è centrale anche nel poema “Orlando furioso” dell’Ariosto.

Sia nell’uno che nell’altro autore – ma è una tendenza storica- c’è lo sforzo di smascherare l’effetto distorcente dell’immaginazione per mezzo della disamina razionale o dell’ironia.

L’ironia dell’Ariosto abbassa regolarmente la statura eroica dei cavalieri, quando si mostrano ridicoli, spregevoli o brutali. Un esempio tragico è la storia di Isabella (canto XXIX del poema), che per sfuggire alla violenza di Rodomonte – e rimanere altresì fedele a Zerbino – si toglie la vita. La realtà della cavalleria si mostra qui diversa dalla immaginazione di essa, direbbe il Machiavelli.

Ma è soprattutto nelle complesse dinamiche della psiche che Ariosto isola il complesso rapporto che si sviluppa tra immaginazione e realtà, evidenziando l’attaccamento dell’uomo all’immaginazione, la sua resistenza a riconoscerla come tale, e a rinunciarvi.

Riporto due passi, tratti l’uno dall’ottava 56 del Canto I, l’altro dall’ottava 103 del Canto XIII.

“Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibiIe, / e l’invisibil fa vedere Amore. / Questo cretuto fu; che ‘l miser suole / dar facile credenza a quel che vuole. (Canto I, ottava 56)

“Va col pensier cercando in mille modi / non creder quel ch’al suo dispetto crede: / ch’altra Angelica sia, creder si sforza, / ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.” (Canto XXIII, ottava 103.)
L’uomo è incline a credere alle sue fantasie – all’immaginazione – per sopportare la miseria della sua condizione, soprattutto quando è sotto l’effetto dell’amore, che ha una forte valenza immaginaria: sia perché nasconde gli aspetti crudi o negativi della realtà e della persona amata, sia perché la ricama e la trasfigura.

Ariosto è esplicito: il turbamento amoroso altera la percezione ordinaria. Il che avviene in due modi: 1. non facendo vedere quel che turba, addolora, deprime, agendo come un filtro che trattiene gli scarti e i residui maleodoranti della realtà; e 2. destando nell’uomo una specie di sesto senso, che rendendolo visionario gli fa vedere l’invisibile, un non so che di divino, che promette la felicità.

Amare implica allora mettere rischiosamente il piede nel baratro della follia, secondo Ariosto, come scrive nella prima ottava del Canto XXIV:
“Chi mette il piè su l’amorosa pania, / cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale; / che non è in somma amor, se non insania, / a giudizio de’ savi universale: / e se ben come Orlando ognun non smania, / suo furor mostra a qualch’altro segnale.”

Ariosto mette in guardia dalla passione d’amore: il giudizio unanime dei saggi di ogni tempo non lascia margine al dubbio: l’amore è follia, in cui precipita chiunque ne sia catturato, anche se i sintomi non sono così clamorosi come quelli di Orlando!

L’amore si manifesta come una fiamma che esalta l’immaginazione, fino al rifiuto della realtà, come dimostra la vicenda di Orlando, che si rifiuta di credere al tradimento di Angelica. La tenacia dell’immaginazione amorosa di Orlando mostra una resistenza ad accettare la realtà, che sfiderebbe qualsiasi trattamento psicoanalitico, e che infine sfocia nella follia.

Come dunque Machiavelli toglie i panni curiali al principe, degradandolo addirittura a centauro (“mezzo bestia e mezzo uomo”), allo stesso modo fa Ariosto con l’amore: la sublimità del principe come dell’amore, sarebbe il frutto ingannevole del lavoro immaginario della mente, al quale l’uomo è tenacemente e irrazionalmente attaccato.

Ma ho accennato al fatto che anche la nuova cosmologia ha un effetto “desublimante”, rispetto all’immagine tradizionale, tolemaica del mondo.

A questo riguardo, riporto alcuni versi tratti dall’”Anatomia del mondo” (1611) di John Donne (1572 – 1631):

“E la nuova filosofia mette tutto in dubbio, l’Elemento del fuoco è affatto estinto; il Sole è perso, e la terra, e nessun ingegno umano può indicare all’uomo dove cercarlo. E apertamente gli uomini confessano che questo mondo è estinto, quando nei pianeti, e nel firmamento, ne cercano tanti nuovi; vedono che questo si è sgretolato tornando ai suoi atomi.”

La nuova filosofia mette in dubbio l’immagine tradizionale di cieli imperituri, immortali, sede del divino. L’universo si fa infinito e caotico. La Terra e il Sole vi si perdono.
E aggiunge:
“[…] la bellezza del mondo è decaduta, o svanita, la bellezza, che è colore e proporzione. […] sorgono nuove stelle e le vecchie ci svaniscono dagli occhi: come se il cielo soffrisse terremoti, pace o guerra, quando sorgono nuove città e le vecchie vengono demolite.”

La bellezza del mondo è decaduta. I cieli hanno perso la loro perfetta sfericità, e così via.

Un nuovo strumento di osservazione, il cannocchiale, puntato verso il cielo, ha fatto vedere che il quinto elemento – l’etere incorruttibile, perfetto costrutto dell’immaginazione sublimante – non esiste, perché la Luna è fatta come la terra: di pietra e polvere.

Gaetano Riggio

Lascia una risposta

Carletto Romeo