Le metamorfosi di Lina

Commento “A mia moglie”: Ciò che può urtare o scandalizzare, sia moralmente che esteticamente, in questa famosa lirica di Umberto Saba

Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio

Le metamorfosi di Lina

Un commento “A mia moglie” di Umberto Saba


Ciò che può urtare o scandalizzare, sia moralmente che esteticamente, in questa famosa lirica di Umberto Saba – come di fatto è accaduto -, è la vertigine metamorfica discendente, suscitata nel lettore dalla serie dei paragoni tratti dal mondo animale, per la quale attributi e qualità si mostrano come un fondo comune a tutti gli esseri viventi e a tutte le femmine di tutti gli animali e degli essere umani, animati dal medesimo alito vitale: non a caso il poeta si rivolge alla moglie Lina con il refrain che recita:

ti ritrovo […] in tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio; / e in nessun’altra donna.”

Il paragone appare pure in forma rovesciata, con l’effetto di stabilire una simmetria tra Lina e “le femmine di tutti i sereni animali”: mentre infatti le qualità e le virtù di Lina sono rinvenibili presso gli animali, gli animali a loro volta hanno qualità e virtù che sono esprimibili antropomorficamente, come risulta dai seguenti versi:

“Tu sei come una giovane, / una bianca pollastra. […] / ma, nell’andare, [la pollastra] ha il lento / tuo passo di regina, ed incede sull’erba / pettoruta e superba.”

Tutto è in tutto: “In ogni cosa c’è una particella di ogni cosa”, afferma il filosofo greco Anassagora, appunto perché all’origine (in principio) vigeva un’unità indistinta, che conteneva in potenza i semi di tutte le cose.

Ciascun frammento dell’unità originaria ha le stesse potenzialità del tutto dal quale si distacca, e un’attitudine illimitata alla comunicazione, a contagiare ed essere contagiato da tutto il resto, così che il plagio non è una frode, né una debolezza correlativa a una forza, ma una proprietà intrinseca di tutti gli enti, che non hanno un’identità forte, potendosi trasformare, per metamorfosi, l’uno nell’altro, in una circolarità infinita.

A dire il vero, in primo luogo le metamorfosi non sarebbero allora quelle della Lina di Saba, ma del poeta latino Ovidio (I sec. a. C. – I sec. d. C.), le cui Metamorfosi “raccontano circa duecentocinquanta casi di metamorfosi in quindici libri” a ricordo “di quell’era remota del mondo durante la quale tutto si trasformava in tutto. Questo rendeva la vita impossibile per chiunque volesse avere un nome e una forma, senza ulteriori mutamenti.”

Questa era ebbe termine quando la fluidità metamorfica si solidificò, “quando il mondo si acquietò”: “Gli dèi posero fine a questo stato, in quanto ulteriormente lo trasformarono. E furono i primi ad avere un nome e una forma. Se gli uomini possono pretendere a tanto, è solo perché gli dèi lo hanno già raggiunto”.

Furono gli dei a porre fine al caos primigenio, in cui tutto si trasformava in tutto, con il dare un nome alle cose, fissandole quindi a una particolare identità, definita dall’etichetta del nome.
Prima di questa cesura della remota preistoria, non valeva il principio aristotelico di identità, che afferma che ogni cosa è identica a sé stessa, e non può essere un’altra (A è A, e A non è non – A).

A era invece potenzialmente non – A, e quindi tutto il resto, per un’affinità originaria (l’unità indistinta delle origini), che poteva essere “alchemicamente” riattivata innescando il processo metamorfico.

Potremmo esprimere questo medesimo concetto in altri termini, affermando che in quell’epoca mitica delle continue metamorfosi, non esisteva la proprietà privata, ma un comunismo intransigente: non si aveva nemmeno la titolarità giuridica del proprio sé, corporeo e psichico, che era travolto dalla giostra cosmica, in continuo movimento.

La proprietà privata presuppone infatti forme e delimitazioni stabili e definite, che facciano almeno parzialmente cadere nell’oblio il comunismo del caos originario, che non permetteva di distinguere il mio dal tuo.
La proprietà privata nasce nell’epoca successiva, quando è possibile dire “io” e “tu”, e di conseguenza “tuo” e “mio”.

In che cosa consiste dunque lo scandalo delle metamorfosi di Lina, da Lina in pollastra, da pollastra in giovenca, da giovenca in cagna, e poi in coniglia, rondine, formica, e infine ape?

Forse nella discesa degradante lungo la catena dell’essere, lungo la gerarchia dei viventi dal più al meno perfetto, nell’assimilazione regressiva con ciò che è più umile e anche abietto invece che progressiva, con ciò che si colloca più in alto, con un effetto inevitabilmente “impoetico”, del tutto fuori luogo per un panegirico amoroso, una poetica della lode?

Certamente, c’è questo, ma anche l’effetto espropriante delle metamorfosi rispetto all’unicità di Lina. Noi infatti la vediamo rifrangersi in una molteplicità alienante, che la priva di quella forma identitaria che il nome proprio incarna e designa distinguendo e discriminando l’individualità rispetto a tutto il resto.

Certo, si potrebbe dire che si tratta soltanto di similitudini e metafore, ma metafore e similitudini si potrebbero considerare tracce e indizi della suddetta epoca mitica, quando andavano intese alla lettera come il riconoscimento di un’identità di fondo tra gli enti, che prevalendo sulle differenze discriminanti, rendeva possibili le transizioni, le equivalenze assimilanti.

Ma allora in che cosa consiste la bellezza estetica e morale di questa lirica, se finora l’abbiamo giudicata “impoetica”, almeno se valutata da una determinata ottica?

Proprio nel richiamo all’unità, che era già del Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi, dove la posizione privilegiata dell’uomo in quanto fatto a immagine e somiglianza di Dio, passava in secondo piano rispetto alla fratellanza e alla sorellanza che legano in stretta parentela e intimità tutte le creature, in quanto figlie e figli del Padre celeste.

Un richiamo, che è un atto coerente con la poetica dell’onestà di Saba, un’arte difficile, che comporta il superamento delle resistenze della coscienza, e la riemersione del rimosso: nella fattispecie, del fondo pulsionale che ci accomuna agli animali, di quel sottosuolo psichico con il quale è così difficile fare i conti, come ben sapeva Saba.

Eppure c’è una nota di sacralità mistica, in tutto ciò: nel ritrovare Lina, da parte del poeta, “in tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio”, risuona un anelito all’armonia, un sentimento di partecipazione intima alla vita universale che supera le forme più ottuse di antropocentrismo, riportando l’uomo nel seno della natura, nella collettività del creato, che – come ribadisce Saba – avvicina l’uomo a Dio.


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Carletto Romeo