Carletto Romeo
Alla fermata dell’autobus
Alla fermata dell’autobus
Abbracciati alla fermata dell’autobus, stretti stretti, abbarbicati l’uno all’altra come se non fosse un saluto di pochi giorni ma un addio di cento anni… Però sono solo venti, direbbe qualcuno. Qualcun altro risponderebbe che suona un po’ come se già venti anni di presenza/assenza non fossero un’eternità! E chi lo sa cosa può accadere domani, può darsi che all’improvviso qualcosa dentro si rompa a tal punto da non volere tornare più… e io che ti aspetto a Bologna e tu che non arriverai mai e io che decido allora di lasciare la Dotta, la Rossa, la Grassa, perché di colpo è finito il tempo di quei sogni che se ci credi davvero poi si avverano. Gli “adulti”… ma quanto si sentono importanti, ma quanto si sentono grandi! Anch’io ho deciso di crescere d’un colpo, come quel rumore assordante che fa una pallottola di fucile, come un corpo che si lascia cadere da un ponte, sordo come diventi sordo tu quando non ti alzi dal letto, incurante di chi sta peggio, della fame nel mondo, dei tumori, del cancro e degli scorpioni, incurante del nucleare e delle alluvioni, incurante di chi è felice di vivere perché no, non è facile da capire che c’è qualcuno che felice non è… a vent’anni!
Inguainata in pantaloni di pelle lucida, cappotto color carta da zucchero, occhiali con il logo, telefono e computer appaiati sotto l’iconico disegno di una mela, parla con una collega che sì, la tesi è quasi finita ma che ancora non lo sa, cosa farà: forse la maestra, l’avvocatessa, il giudice o piuttosto l’inventore di cose già inventate, il dottore di menti ammalate, l’istruttore per corpi disorientati, il suggeritore di una battuta da teatrante, il poco che basta, a chi resta, di guardare attraverso un disegno del reale cosa c’è nel mondo dell’invisibile. A trent’anni ti sembra già che tutto sia scritto con l’inchiostro indelebile per poi scoprire che il mondo è in divenire, come le onde sempre diverse del mare, pieno dei tuoi pensieri che vieni a sciacquare, come tua nonna le sue vesti al fiume, a batterli sui sassi che così pensi si ammorbidiscano e invece no, diventano ancora più neri, perché a volte i colori sbiadiscono e si sciolgono nei flussi come sangue di pesce spada, come fango di strada, come inchiostro di seppia, come umor nero di malinconica tristezza. E ci si difende dimenticando, quando decidi che vuoi provare lo stesso a farti scorrere i giorni, basta non avere più sogni per non sentire più niente.
E poi arrivi ai quaranta e in tutto il decennio che attraversi, prima di arrivare ai cinquanta, osservi nella tua carne tutte quelle trasformazioni che non sapevi, di cui ti raccontavano ma che non credevi. Cominci a realizzare di quanto è dura la vita, cruda nella sua inevitabile serietà, nella sua gravità, a volte pesante come quella forza che ti tiene stretta a terra, impedendoti di volare come i palloncini rossi di quand’eri ragazza. Sono anni in cui cominci a perdere i pezzi del puzzle di affetti di cui è composta la tua parte stabile, alcuni pilastri portanti, alcuni alberi maestri della nave che sei e viaggia per mare, senza isole a vista a cui approdare. Talvolta ricrei i tuoi momenti di silenzio, durante i quali ti immergi in pensieri diversi dal solito pessimismo e fastidio dilagante. Ti sembra di trascendere il tuo corpo e te stesso, senti che se non importa a te di chi e cosa sei non sarà di certo interessante per gli altri scoprirlo, perché il mondo a quaranta è come quello dei ventenni, in cui non si riesce a sentirsi come fili d’erba senza peso e senza pensieri, perché ancora si richiedono grandi performance, eventi, attese, successi… gli insuccessi no, quelli difficilmente sono ammessi. A quaranta sei grande per rompere legami e se lo fai sei un incosciente, per tutti gli altri tranne che per te che speri di sentirti ancora vivo, nonostante comincino i dolori nelle ossa, i primi acciacchi, i primi strappi. La vita si stacca da noi o noi ci allontaniamo dalla vita? Io che li attraverso e non sono uscita ancora dal bosco, arrivo talvolta a delle radure, colline di verde come l’Irlanda ad aprile… a tratti il sole, talvolta la speranza, un salto d’innocente spensieratezza, un pizzico di salutare leggerezza.
Sono alla fermata dell’autobus e il mondo che passa là fuori lo sento distante come se lui, o io, entrambi, fossimo dentro un acquario, in cui torno bambina, nel grembo di mia madre e faccio capovolte, indisturbata, fiduciosa in chi su questa terra mi ha mandata, ormai un po’ di tempo fa, per esprimere il desiderio, forte, grande e immenso, del mio papà.
Alla fermata dell’autobus c’è un mondo che non mi appartiene, così come io non appartengo a lui. Sono e resto di una periferia, della provincia, di quel mare che nasce Jonio, di quelle felci di Ferdinandea stirpe, seppur le origini del mio cognome dicano di me una partenopea. Domani, se ancora mi va, ho deciso… credo proprio che andrò a mangiarmi un bel babà… in fin dei conti un compleanno non può non avere il suo dolce, la vita non può non avere le sue gioie, le giornate non possono non avere lampi di luce accecante proveniente dai riflessi sulle onde.
“Un D’Io c’è”, anche quando non lo vedi, perché “l’essenziale è invisibile agli occhi” e io ho deciso di essere felice con quello che ho… Certo, se ci fossi anche Tu, tutto sarebbe molto più blu, il cielo, il mare, gli occhi di mia madre.
Nei miei pensieri sempre, soprattutto nei giorni di festa, perché nella mia testa la tua voce dolce resta…
PiccolaFlò
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