Il tifo

Cenni storici e considerazioni sociologiche del Prof. Gaetano Riggio sul fenomeno "Tifo"

Il Tifo


Non è certo un fenomeno esclusivo del mondo contemporaneo, il tifo, con tutto ciò che più marcatamente lo caratterizza e lo connota, talvolta anche negativamente:

le tifoserie “bellicosamente” contrapposte, compatte, galvanizzate dai simboli di appartenenza; l’identificazione immaginaria con la squadra per la quale si parteggia; l’idoleggiamento dei giocatori di spicco, che assumono tratti quasi eroici, e possono divenire oggetto di una forma di culto popolare, sotto forma di icone, che circolano e vengono scambiate tra i più giovani (mi riferisco alle famose figurine Panini!), e altro ancora.

Storicamente, è documentato il fenomeno del tifo nell’Impero bizantino, che divideva la popolazione della capitale Bisanzio in vere e proprie fazioni contrapposte, e qualche volta diventava un grosso problema di ordine pubblico, che degenerava in scontri cruenti e vandalismo rivoltoso.

Allora, però, si andava allo stadio non per assistere alle partite di calcio, ma alle corse dei cavalli.

In particolare, abbiamo informazioni quasi di cronaca da parte dello storico Procopio di Cesarea (490-560), contemporaneo dell’imperatore Giustiniano (482 – 565 d. C.), su una strage di tifosi a Bisanzio da parte dell’esercito intervenuto a sedarne i tumulti nel gennaio dell’anno 532 d.C.

Le due tifoserie principali della città erano allora quelle degli “Azzurri” e dei “Verdi”, e Procopio, testimone dei tragici eventi del 532, non si capacita della sproporzione tra la futilità dei motivi e l’enormità delle conseguenze.

Non riesce a spiegarsi perché i tifosi “si accapigliano con gli avversari senza nemmeno sapere esattamente perché, tranne il fatto che, se ammazzano gli avversari, rischiano di finire in prigione”.

Non gli è chiaro il meccanismo per cui in questi uomini “cresce un’ostilità senza ragione nei confronti di altri esseri umani, e non cessa e non cede di fronte a legami di matrimonio e di amicizia, neppure tra fratelli e parenti. Non gli importa di nulla di umano e neanche di divino, se non dei colori della propria squadra”.

Se torniamo indietro di qualche secolo troviamo la testimonianza di Plinio il giovane (61- 114 d.C.), che confessa la sua difficoltà a comprendere il fenomeno del tifo.

Egli si chiede infatti come mai “tante migliaia di uomini, ridiventando a quel punto bambini, desiderino periodicamente contemplare dei cavalli in corsa e degli aurighi piantati su cocchi”.

Dice che “se il loro entusiasmo nascesse dalla velocità dei cavalli o dalla maestria degli aurighi, questa passione avrebbe ancora una qualche giustificazione”.

Ma gli risulta incomprensibile che “fanno il tifo per una maglia, spasimano per una maglia, e se, proprio nello svolgersi della corsa e nel cuore della competizione, questo colore passasse di là, e quello venisse di qui, si scambierebbero anche l’ardore e il tifo e abbandonerebbero di colpo i celebri guidatori, i celebri cavalli che sogliono riconoscere da lontano e di cui non si stancano di gridare i nomi.

Tanto è il credito, tanto è il prestigio di cui gode una camicia da quattro soldi, non dico agli occhi del volgo, che vale ancor meno dei quattro soldi della camicia, ma agli occhi di certi signori di gran peso”.

Adesso passiamo ad alcune riflessioni prendendo spunto dalle citazioni letterarie, di cui sopra.

La competizione sportiva è uno scontro simulato e ritualizzato, secondo regole che pongono un limite all’aggressività, nel quale chi è più abile o più forte, vince.

Essa contrappone individui o squadre secondo lo schema amico – nemico, attivato dall’antagonismo e dai simboli di appartenenza (a Bisanzio, i colori verde o azzurro), che identificano immediatamente chi è “con noi o contro di noi”, e compattano i membri delle tifoserie in unità chiuse ed elettrizzate, alle quali danno man forte simboli, e atti rituali come urla, slogan, cori, eccetera.

I tifosi partecipano allo scontro simulato in quanto s’identificano con gli “attori in campo”, secondo un meccanismo che è duplice: da una parte, sentono di essere il popolo in nome del quale i loro “campioni” si battono;

dall’altra, partecipano all’evento agonistico per interposta persona, secondo un meccanismo di identificazione simile a quello che si realizza quando si legge un romanzo, dove la finzione narrativa assume la consistenza della realtà ed il lettore indossa letteralmente i panni ora di questo ora di quel personaggio alienandosi dalla realtà ordinaria, vivendo virtualmente un’esperienza emozionante, che gli sarebbe altrimenti preclusa.

La sproporzione alla quale abbiamo fatto cenno tra il carattere ludico dell’evento sportivo, e la serietà tragicomica di un certo tifo, si radica nei due elementi della simulazione e della ritualizzazione, capaci di innescare passioni reali, che possono sfuggire di mano alle persone coinvolte, con conseguenza a volte molto negative.

E’ nota d’altra parte la capacità dei simboli e degli atti rituali di mettere in atto processi di identificazione collettiva, di fusione di individui per altri aspetti separati gli uni dagli altri in una sola massa, che agisce come un solo corpo, a partire dai totem primitivi ai vessilli delle confraternite e delle associazioni, alle bandiere nazionali.

Lo afferma lo stesso Procopio di Cesarea, come abbiamo già visto: “Non gli (ai tifosi) importa di nulla di umano e neanche di divino, se non dei colori della propria squadra”. Lo afferma, ma non coglie la forza del simbolo (i “colori della propria squadra”), la sua valenza di archetipo psicologico, che sfugge pure a Plinio il giovane, quando si meraviglia che i tifosi “spasimano per una maglia”, che conta assai più della persona che l’indossa, tanto è vero che se cambiasse divisa, da amico che era diventerebbe nemico, o comunque avversario.

Ma è proprio il sentimento di identificazione forte con il gruppo la principale esperienza emotiva che qualifica il tifo, che è fonte di ebbrezza e benessere psicologico, e può talvolta crescere pericolosamente in concomitanza con il sentimento di avversione verso il gruppo avversario.

Questo tipo di esperienza può essere poi tanto più ricercata (quasi come una droga), quanto più i tifosi vivono esperienze di solitudine e di emarginazione reali, rispetto ai quali funziona come una compensazione, ed un risarcimento.

A questo punto non possiamo non accennare all’uso, o per meglio dire alla strumentalizzazione politica del tifo.

Soprattutto per una parte dei tifosi, il tifo può funzionare come un’integrazione immaginaria nella società di riferimento rispetto all’emarginazione effettiva in cui si trovano a vivere.

Mi limito ad accennare alla passione dei napoletani per il calcio e al culto della personalità di Maradona: è evidente che il tifo era funzionale alla pace sociale in un contesto di degrado ed emarginazione.

Anticamente, erano gli imperatori romani a fare uso politico dei giochi pubblici, per tenere a bada la plebe della capitale.

E’ infatti bello sentirsi parte integrante di un tutto compatto e vittorioso, quando la vita reale è ben diversa. Più in generale, qui il tifo assume il valore di evasione collettiva che valorizza il senso di appartenenza e fa dimenticare i problemi.

Ma il contesto agonistico delle competizioni sportive può anche funzionare da detonatore rispetto a tensioni sociali e politiche e frustrazioni represse, che cercano l’occasione dello sfogo.

Mi riferisco alle frange estremistiche del tifo, che cadono vittime di un abbaglio: identificano il nemico sociale, l’oggetto della loro ostilità, con i tifosi dell’altra squadra. La rivalità, già attivata dai simboli di appartenenza e dall’agonismo, diventa odio, in quanto il tifoso estremista trasferisce nei tifosi dell’altra squadra i sentimenti aggressivi, dovuti a conflittualità e frustrazione sociali, e a problematiche individuali.

Sappiamo per esempio che a Bisanzio, ai tempi di Giustiniano, la rivalità tra squadre si caricava di valenze politiche e religiose, e diventava uno dei tanti terreni di scontro in cui si manifestava il conflitto.

Essendo d’altra parte il tifo espressione di uno scontro simulato, non è difficile immaginare che in esso possano riversarsi i conflitti reali che dividono le persone e i gruppi, secondo circostanze e modalità storicamente ben determinate.

Un altro aspetto, già accennato, è il culto del campione, analogo al culto della personalità in alcuni regimi politici contemporanei, o all’apoteosi degli imperatori a Roma, e degli eroi della storia e del mito.

Come il capo carismatico in politica, il divo dello sport ha il suo seguito di adoratori che lo osannano per le sue doti eccezionali, fuori dell’ordinario, che sanno quasi di miracolo.

Egli è colui che può decidere dell’esito della gara, il trascinatore e la guida che provvidenzialmente porterà la squadra, e con essa i suoi fans, alla vittoria. Esattamente come nel caso del capo carismatico in politica.

Anche qui, soprattutto nel mondo di oggi, non manca la manipolazione: del campione da parte della politica, e dei fans da parte del campione e degli interessi economici, che sfruttano la situazione per fare business, manipolando l’emotività della massa dei tifosi.

C’è sempre un’ambiguità ineliminabile nella valutazione dei fenomeni di fusione collettiva, qual è il tifo nella sua espressione tipica: da una parte sono un fattore di coesione sociale; dall’altra, non sono quasi mai esenti dalla manipolazione politica ed economica, che agiscono alle spalle delle persone coinvolte, e a loro insaputa.


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Carletto Romeo