La legge aurea e felice

Lo Spunto Letterario
di Gaetano Riggio


La legge aurea e felice “S’ei piace, ei lice”


Il titolo è una citazione dal dramma pastorale “Aminta” (1573) di Torquato Tasso, precisamente dal coro dell’atto I (versi 343 – 344), che, in analogia con il modello della tragedia greca, commenta le vicende tematizzandone il significato profondo e le implicazioni.

Il pastore Aminta ama la ninfa Silvia non riamato. L’happy end giunge a coronamento di una passione drammaticamente tenace, baciata infine dalla fortuna, ma non prima di essersi confrontata con le dimensioni oscure della violenza e della morte. Non esiste infatti una legge spontanea di attrazione reciproca in amore – vale, semmai, la tendenza contraria, che impedisce, contrasta o guasta le relazioni amorose, per varie ragioni naturali e storiche.

Ecco allora il coro rievocare nostalgicamente la mitica età dell’oro (“O bella età de l’oro”, v.319), precedente alla storia, in cui regnava un’armonia scevra di contrasti.

Un’armonia che conciliava ciascuno con tutti: nei fiumi scorreva il latte, le terre donavano spontaneamente frutti ai viventi e all’uomo senza essere violate dall’aratro (“da l’aratro intatte”, v.323), i serpenti strisciavano sulla terra senza nuocere, e il cielo era allietato da un’eterna primavera, mediana trai rigori dell’inverno e l’arsura dell’estate.

Non c’era dunque il conflitto che oppone il vivente al vivente, che fa dell’uno il cibo dell’altro. Non valeva l’adagio generale “mors tua vita mea”, né quello particolare, che ci mette in allerta, “homo homini lupus”.

In quel tempo, Aminta avrebbe ottenuto l’amore di Silvia senza gli impedimenti dovuti alle disarmonie della natura o al pregiudizio umano, secondo una legge che il coro riassume nella formula “S’ei piace, ei lice”, vale a dire: “è lecito tutto ciò che piace”.

Sivia e Aminta avrebbero – in quel tempo mitico – potuto vivere il loro amore senza le complicazioni imposte dalle regole “repressive” della civiltà che interferiscono con la spontanea espressione delle emozioni e dei sentimenti e con il libero instaurarsi delle relazioni amorose. Niente e nessuno avrebbero impedito a Silvia ed Aminta di amarsi.

Allora, infatti, secondo la rievocazione nostalgica del coro, “sedean pastori e ninfe / meschiando a le parole / vezzi e susurri, ed ai susurri i baci / strettamente tenaci; / la verginella ignude / scopria sue fresche rose, / ch’or tien nel velo ascose, / e le poma del seno acerbe e crude; / e spesso in fonte o in lago / scherzar si vide con l’amata il vago.” Non vigevano – allora – barriere codificate ai contatti tra giovani e fanciulle, ma una libera promiscuità scevra dalle remore del pudore, che consentiva ai sentimenti di fiorire tempestivamente, così che le ninfe potevano amoreggiare in fonte o in lago con i loro innamorati, senza divieti o suscitare scandalo.

Vigeva la legge felice del “S’ei piace, ei lice”, non la “dura legge” (v.341) dell’onore, per “quell’alme in libertate avvezze” (v.342), dove “onore” significa “dovere”, “divieto, “limite”, “pregiudizio”, e così via.

Allora, sul piano psicologico, vivere secondo la regola “se piace, è consentito”, significava ignorare la sofferenza della rinuncia, il limite posto alla realizzazione del desiderio, la frustrazione dell’amore inappagato, vuoi per l’avarizia della natura vuoi per la crudeltà delle leggi umane. La vita scorreva senza ostacoli, differimenti, in quanto il piacere si coglieva nell’istante senza la servitù del sacrificio, che impone di rinviare il soddisfacimento al futuro, o “sine die”. L’istante era pieno del liquore del piacere e dell’amore, e la vita ne era il flusso ridondante.

Ma come si è passato dalla legge felice del piacere alla legge dura dell’onore, “che di nostra natura ‘l feo tiranno” (v.337)?

Il coro non indaga sulla transizione dal mito alla storia, ma attribuisce alle leggi repressive storicamente determinate, che hanno prosciugato le fonti del piacere, le cause dell’infelicità dell’uomo: “Tu prima, Onor, velasti la fonte dei diletti negando l’onde a l’amorosa sete;” (vv.358 – 360); “E son tuoi fatti egregi le pene e i pianti nostri” (vv. 371 – 372).

Ma se queste leggi hanno origini storiche, allora è possibile realizzare l’età dell’oro ripristinando la libertà originaria. E’ possibile inoltre impedire che la legge dell’onore guasti le genti semplici, che ancora vivono secondo la legge di natura: “Vattene, e turba il sonno agl’illustri e potenti: noi qui, negletta e bassa turba, senza te lassa viver ne l’uso de l’antiche genti. Amiam, ché non ha tregua con gli anni umana vita, e si dilegua.” (vv.377 – 383)

Se ora torniamo al tempo presente, non c’è dubbio che “la mentalità è cambiata”, e che un bel numero di leggi, norme legali e morali repressive sono state tolte negli ultimi tempi: così, almeno da questo punto di vista, le relazioni amorose sono assai più libere, più conformi alla legge aurea “S’ei piace, ei lice”, anche se non è facile valutare quanto invece siano globalmente più felici.

Ma è davvero possibile attuare integralmente il principio del “S’ei piace, ei lice” – come ai tempi dell’età dell’oro -, così da prescindere dal limite e dai divieti che frustrano la ricerca del piacere o la realizzazione del desiderio?

La risposta è negativa – mi pare. Se infatti le leggi storiche dell’onore – cioè del dovere e del divieto, come le chiama Tasso -, in quanto leggi repressive hanno inaridito la vita, l’attuazione integrale del principio del piacere avrebbe un effetto altrettanto nefasto. Vediamo allora le obiezioni principali all’edonismo.

In primo luogo, il conseguimento degli obiettivi vitali importanti – che possiamo indicare con il termine “valori” -, non è possibile se non come il beneficio di un costo fatto di sacrifici e rinunce a piaceri immediatamente fruibili. Li potremmo anche chiamare “piaceri secondari”, rispetto a quelli “primari”, che si possono conseguire immediatamente, nell’istante vissuto.

Alcuni piaceri – seconda obiezione – ripugnano all’idea che l’uomo tende a farsi di sé, oppure si mostrano come paradossali, e aporetici: il piacere di fare del male, il piacere che fa male a sé o agli altri, il piacere che contraddice o si oppone a un altro piacere, eccetera.

La terza importante obiezione è il fatto che la costruzione delle relazioni umane – cioè dei legami più o meno stabili ai vari livelli: amicizia, amore, famiglia, gruppo di lavoro, comunità -, comporta la rinuncia a una quota significativa di piacere. Non è quindi possibile godere della pienezza di senso che l’amore in senso lato offre, se non si cementa il legame dell’unione con la rinuncia a una quota di piacere egoistico, che se perseguito avrebbe un effetto erosivo e disgregante.

Infine, sul piano delle relazioni amorose in senso stretto, come mostra la vita e la letteratura, vi è una continua tensione tra amore e piacere, che tendono ora a identificarsi ora a divergere secondo un’oscillazione continua.

Insomma, se armonia vi può essere nella vita, è solo il risultato di un accordo di contrasti, della consonanza di note discordanti che stridono, che solo nell’insieme producono un bel effetto.

Ma, come ho già anticipato, la letteratura offre gli spunti per approfondire meglio questo discorso.


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Carletto Romeo